La prima fase del nostro metodo è la comprensione del contesto dell’innovazione, in particolare la comprensione del problema che un cliente (interno o esterno) intende risolvere (o il risultato che intende ottenere) acquistando un prodotto o un servizio. Creare un prodotto o un servizio innovativo, infatti, è un’ottima cosa, purché́ non risulti inutile per le persone. Il metodo del Job riduce le possibilità che l’innovazione, per quanto eccellente dal punto di vista tecnologico, possa dimostrarsi inutile, cioè di scarso valore per il “cliente”.
“Quello che sappiamo”, dice il prof. Christensen, il principale sostenitore della teoria del Job, in un’intervista pubblicata postuma sulla Sloan Management Review del 2020, “è che la maggior parte delle imprese tende a concentrarsi sui dati come supporto per le loro decisioni: conoscono le quote di mercato all’ennesima potenza, come i prodotti sono venduti nei diversi mercati, il margine di profitto su centinaia di articoli diversi e così via. Ma tutti questi dati si concentrano sui clienti e sul prodotto, non sul risultato che il cliente o l’utente sta cercando di realizzare effettuando l’acquisto. Noi crediamo che ci sia un modo migliore per capire questa scelta. La chiamiamo la Teoria del Job.”
In accordo con la teoria del Job, la prima cosa da fare è entrare nel campo in cui si svolge l’azione osservabile del cliente per rilevare il percorso che egli segue e l’esperienza che vive quando si prefigge di risolvere il proprio problema. Questo percorso intenzionale contrassegnato da decisioni, relazioni con altri attori, emozioni, interazioni con la tecnologia è il Job del cliente. In accordo con la teoria del Job, dunque, il “cliente” e così pure il prodotto, non sono la giusta unità di analisi quando si sta cercando di innovare.
Anziché il cliente o il prodotto, occorre dunque focalizzare il risultato che un utente o un consumatore intende raggiungere (o il problema che vuole risolvere) assumendo un prodotto o utilizzando un servizio o avvalendosi di un processo. È il perseguimento di questo obiettivo, infatti, che determina l’esperienza.
Le funzionalità del prodotto o le caratteristiche e del servizio non spiegano invece perché un cliente acquisti o non acquisti. Anche le tradizionali segmentazioni demografiche e i big data non risolvono il problema. Possono aiutarci a scoprire correlazioni e conoscere chi compra, dove e quando, quale prodotto acquista assieme a un altro, ma tutto questo non ci aiuta spesso a capire perché un prodotto sia assunto, e, cosa ancora più importante, perché NON lo sia.
Insomma, la risposta alla domanda “perché un cliente acquista e consuma un prodotto?” va cercata altrove: nella constatazione che siamo costantemente impegnati nella soluzione di specifici problemi e che i prodotti, i servizi e i processi sono parte della soluzione. È per questo che li assumiamo: li introduciamo nella nostra vita perché ci aiutano a migliorarla. Con la ricerca qualitativa sul campo, Epoca entra nel mondo dell’esperienza del cliente e lo esplora nelle sue pieghe meno visibili con strumentazione che prevede osservazioni attive e passive, interviste e analisi di contenuti prodotti dall’utente. Questa immersione nel mondo dei clienti consente di raccogliere una grande quantità di informazioni “profonde” che sono poi analizzate, clusterizzate e messe a sistema grazie all’utilizzo di tool come:personas, empathy map, user journey, blueprint, stakeholder map, system map, etc.
Il Job as is, la comprensione del percorso del cliente, prende così progressivamente la forma di storyboard, di mappe e, soprattutto, di una vera e propria storia che descrive con tutta la ricchezza del linguaggio, e non invece con uno slogan di poche righe, l’esperienza del cliente. Comprendere il meccanismo causale dell’acquisto e del consumo (o del non consumo) è il presupposto per migliorare il Job e per andare a lavorare sullo strato successivo ponendosi la domanda: come si può facilitare la soluzione del problema che il cliente cerca di risolvere? Quali sono le esperienze di acquisto e di utilizzo che occorre sviluppare o modificare per fare in modo che egli possa svolgere al meglio il suo compito?
Avendo risposto a queste domande è ora possibile contare su una solida base per progettare un’innovazione certamente meno rischiosa. La teoria ODI (Output Design Driven) di Anthony Ulwick ci supporta nel rilevare le metriche con le quali il cliente misura le performance del Job as is.